Siamo oggi ragionevolmente certi che la data di fondazione del monastero di Santa Maria Maddalena sia il 1316, e a questa conclusione arrivò primo il succitato Dazio Pasquini, mediante l’incrocio di tradizioni locali e dati storici inequivocabili. I cronachisti locali, concordi nell’attribuire la fondazione del monastero alla volontà e al lascito di un tale Amadio di Spello, indicavano però due possibili date di fondazione: gli Olorini il 1316, il priore don Luigi Pomponi il 1400. Questa seconda data va però decisamente scartata grazie all’esame di due importanti documenti. Innanzitutto, il manoscritto redatto nel 1462 (ma copia di un originale del 1393) conservato nell’Archivio Diocesano di Spoleto e noto come codice Pelosius. Il Pelosius, nel registrare tutte le chiese della diocesi di Spoleto negli anni novanta del trecento, alla rubrica De Plebatu Spelli, nomina due volte il monastero di Santa Maria Maddalena, prima come “Cappella S. M. Magdalene”, più avanti come “Monastero di S. M. Maddalena ovvero di Amadio ha estinto per libbre 50. Vivono in esso la Badessa e le Monache con la Regola Sua. È tassato verso il Signor Vescovo per 1 libbra di cera. Per la visita ha già versato 1 fiorino destinato al Signor Vescovo” Prova definitiva è poi fornita dal volume Rationes decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV. Umbria, I, Testo a cura di Pietro Sella 4. Vi si trovano quattro registra-zioni di pagamento, del 22 giugno e 26 dicembre 1333 e del 23 giugno e 24 dicembre 1334, relative a decime pagate per conto del monastero di Santa Maria Maddalena di Spello. Se dunque nel 1333 il monastero pagava le decime, è chiaro che a quella data era già stabilizzato ed economicamente fiorente: potremo dunque accettare con ragionevole certezza la data di fondazione tramandataci dai cronisti Olorini, cioè il 1316, di cui quest’anno festeggiamo il settimo centenario. La visita Barberini del 1610, peraltro molto sintetica, attribuisce al monastero 25 monache, di cui 23 coriste, confermando ancora una situazione florida del monastero. Non così la visita Lascaris del 1712 che ne sottolinea l’estrema povertà: alle 15 monache, di cui 12 coriste, non era sufficiente l’entrata della proprietà, per cui veniva somministrato un vitto tenuissimo, tanto che alcune di loro si nutrivano del proprio.

Meno oscure sono le origini del monastero di San Giovanni, che costituisce la seconda radice dell’attuale comunità monastica. In questo caso ci è giunta, conservata nell’archivio del monastero di Santa Maria Maddalena, una cronaca della fondazione, probabilmente desunta da un originale della fine del sec. XV, tradotta in volgare dal canonico Francesco Olorini nel XVII secolo. Questi ne trasse poi una più ampia narrazione integrando il testo suddetto con le notizie contenute nelle Cronache dei suoi antenati. E dunque il monastero di San Giovanni venne eretto, nel luogo di un precedente convento di terziarie francescane distrutto da un incendio nel tempo delle lotte di fazione, da suor Mita o Margherita di Andreuccio da Spello verso il 1345. Suor Mita era stata proprio allora elet ta abbadessa di un monastero di Agostiniane a Giano, soggetto al Capitolo Lateranense, fondato tre anni prima nella Terra di Giano dalla beata Chiaruccia da Montefalco, discepola con suor Mita di santa Chiara da Montefalco. Essendo la casa di Giano angusta e trovate le offerte presso i concittadini spellani per ricostruire un più comodo monastero a Spello, nel 1347 la comunità di Giano fu trasferita lì sotto il governo di suor Mita, che fu dunque la prima abbadessa di San Giovanni.

Delle notizie salienti di questa cronaca ho trovato una sostanziale conferma nella visita Lascaris del 1712, con qualche differenza di date e luoghi. Il visitatore, che sembra tuttavia ben documentato, facendo riferimento per la prima fondazione a un atto rogato nel 1320 da un tal Geremia da Castel Vecchio, riferisce che nel sito del monastero di San Giovanni di Spello (in hoc sito) una vergine di nome Chiaruccia di lacobetto da Giano (e non da Montefalco), alunna della beata Chiara da Montefalco e discepola del beato Angelo da Foligno, insieme con alcune altre sacre vergini, cioè Agnese e Falconetta da Giano e Mita o Margherita da Spello, ottenne per carità una casetta con un orto e un pezzo di terra e lì eresse un reclusorio intitolato alle beate Giovanna e Chiara da Montefalco. Successivamente, nell’anno 1343, ottennero dal Capitolo Lateranense la facoltà di erigere il reclusorio in manastero sotto la Regola di sant’Agostino, soggetto al Matto Capitolo. Precisa quindi il visitatore che la vita resinastica fiori nel monastero per più secoli e, dopo il Capitolo di Trento, passò dalla soggezione al Capitolo Lateranense a quella del vescovo spoletino. Al tempo della visita Barberini vivevano nel monastero di San Giovanni 24 monache, di cui 22 coriste, mentre al tempo del Lascaris 22 monache, di cui 18 coriste, non tuttavia, sottolinea il visitatore, con l’antica osservanza. Il monastero di San Giovanni, a differenza di quello di Santa Maria Maddalena, aveva entrate sufficienti, ma queste erano male amministrate, per cui alle monache mancava il necessario e veniva somministrato un vitto tenuissimo.

Lo spaccato della vita dei due monasteri, che ci è offerto dalle due visite pastorali per i secoli XVII e XVIII e che è particolarmente illuminante per la rara presenza degli inventari completi di tutte le proprietà redatti dalle due abbadesse, ci fotografa una situazione che dovette protrarsi circa invariata fino al 1810, quando vi fu il primo scossone alla vita dei monasteri. A seguito della soppressione operata dal governo francese di tutti i conventi, i cui membri non fossero impegnati nell’insegnamento o nell’assistenza agli infermi, le due comunità dovettero accettare inermi il sequestro dei beni e la cacciata delle monache, costrette a vivere nel secolo in condizioni spesso difficilissime dal 1810 al 1815. Nonostante ciò, al ritorno del Papa a Roma, pressoché tutte le religiose tornarono in monastero, ed esse erano in numero di undici a Santa Maria Maddalena e di quindici a San Giovanni, e tutto sembrò tornare alla normalità. Senonché, nel 1816 il Pontefice Pio VII, aderendo probabilmente ad una richiesta delle autorità civili e religiose di Spello che volevano utilizzare gli stabili di San Giovanni per costruire una sede più adeguata al Seminario-Collegio Rosi, decreta l’unione dei due monasteri e il trasferimento delle religiose da San Giovanni a Santa Maria Maddalena. La fusione delle due istituzioni, che difficilmente sarebbero sopravvissute divise e che erano già rette dalla stessa Regola di sant’Agostino, era in realtà razionale e oculata, ma non fu scevra di conseguenze per la vita monastica, inevitabilmente esposta ad un difficile periodo di assestamento segnato dall’alternarsi di abbadesse nominate dal Capitolo e presidenti imposte dall’autorità vescovile, ma infine le due comunità si amalgamarono e il tempo e il fisiologico rinnovamento fecero il resto.

In ultimo dobbiamo annotare la nuova soppressione degli enti religiosi operata dal neonato Stato Italiano: gli stabili del monastero vennero di nuovo espropriati e alle monache fu permesso di restare in monastero vita natural durante, ma senza possibilità di accogliere nuove vocazioni. La difficile situazione si protrasse fino al 1879, quando ricominciarono le nuove professioni, e in seguito le monache ebbero la possibilità di ricomprare dal Demanio il loro monastero.

di Caterina Comino

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